Selezione di scritti critici di alcune personalità sul lavoro di Franco Fossi e il DNA VISIVO
VITTORIO SGARBI
"I giudizi di Sgarbi" (Ed. Giorgio Mondadori 2005)
Lo scultore Franco Fossi enuncia una serie di pensieri che si trasformano in opere plastiche, dove emerge chiara la sua intenzione di relazionarsi con la classicità, ribaltandola in raffigurazioni perfettamente sintonizzate con le problematiche della nostra contemporaneità. E’ questa una tipologia di lavoro carica di ardore, e persino di una misteriosa urgenza partecipativa che ha la qualità di rivelare le implicazioni più conturbanti del nostro vivere in un universo stravolto dalla tecnologia.
Dalle sue mani di artista e di artigiano viene definito un codice simbolico che ricostruisce con intelligente autonomia anche il senso dell’arcano, e di quanto appartiene alla memoria archetipica.
Quando l’osservatore si mette a confronto con queste opere così complesse, si stabilisce una comunicazione immediata ed emozionale, nella quale vibrano echi stranianti, che derivano da una costruzione certamente astratta, ma anche fortemente intrisa di sottintesi e di citazioni della classicità. Se questo scultore si rifà in parte a stilemi surrealistici, tuttavia la sua scultura è più precisamente riferibile agli accenti metafisici delle sperimentazioni pittoriche e scultoree del primo Novecento. Di quel momento storico egli effettua la rivisitazione attraverso una riflessione colta e motivata, in seguito alla quale utilizza grovigli segnici e allusioni mitologiche per raccontare un’alienità oggettivata, nei cui confronti gioca con intelligenza una sorta di sfida. Fossi proietta infatti la sua stessa interiorità in una serie di rielaborazioni, che si propongono sin dal titolo in modo curioso e inquietante, poiché riferiscono la misteriosa natura di un Clone del seme celato, oppure svolgono il teorema spaziale di un’Apoteosi alare.
Coniugando provocatoriamente i temi inconciliabili di una mitologia arcaica e della moderna tecnologia, egli coglie e fissa nel suo modulo plastico, che resta sostanzialmente informale, lo scatto di un corpo, o l’espressività di un volto frammentato. Questi elementi visuali assolvono una funzione simbolica e sono presumibilmente il risultato di un giudizio persino feroce sulla ricerca scientifica, elargendo le immagini di un’ibridazione derivante dall’accoppiamento della biologia con la meccanica. In questa commistione di elementi inconciliabili prende corpo il senso di una lacerazione, o lo smarrimento suscitato da una involuzione caotica. E se la decodificazione resta comunque difficile, è ben evidente il significato specifico di una gestualità plastica eversiva e di una narrazione drammatica.
L’impeto che caratterizza queste strutture è comunque alimentato da una passionalità fredda, e dalla capacità dell’artista di domare il plasma materico pietroso o metallico, e di assoggettarlo a un’intenzione creativa fervidamente immaginosa. Se si può parlare di sperimentalismo, va detto che non si tratta qui di un’esercitazione autoreferenziale, bensì della conseguenza di un continuo ripensamento espressivo, o della ripresa consequenziale di una riflessione maturata e approfondita nel corso di tappe successive. In ogni sua scultura l’artista riannoda il filo di un discorso precedente affinandone il senso, e traducendolo in nuove forme sintattiche che possono chiudersi in un tutto tondo segnato da incavature profonde e da intrusioni figurali, come espandersi in geometrie dinamiche che dilatano e frammentano la forma dento e intorno al vuoto.
Ognuna di queste sculture è dunque un congegno intelligente che, pur nella devastazione della forma, materializza gli incubi di una realtà leggibile come un reperto archeologico di futura memoria.
ALESSANDRO VEZZOSI
“La forza di un’idea visiva” (Archivio Leonardismi - Museo Ideale Leonardo da Vinci)
Può bastare un’idea, una sola scintilla creativa per dare senso a una vita d’artista; e per caratterizzare ed esaltare l’originalità della sua opera. Fossi ha avuto un’intuizione straordinaria, ha inventato un’idea di un’eccezionale intensità simbolica nel figurare e nel comunicare: il “DNA visivo di Monna Lisa”. Ovvero: uno schema mentale fondato sull’icona per eccellenza, la più celebre immagine della storia dell’arte. E si è costruito anche la possibilità di un concerto infinito di variazioni sul tema.
C’è un altro aspetto straordinario di Fossi, un fatto raro e fondamentale, che consiste nella sua personalità, in quell’arte-vita che già Marco Hagge ha ben evidenziato come “la sua clandestinità”: il suo non essere presente nella mondanità, quasi esistesse fortemente l’opera ma non comparisse l’autore. Non per timidezza, ma per scelta del segreto, dell’imprevedibile, ovvero dell’arte senza rincorse al successo, né sull’onda del marketing o delle apparenze strategiche e mediatiche.
Fossi tende a rappresentare l’arte come rivelazione, ricerca, scoperta e rivelazione, sintesi di un concetto matematico e di un dato fisiognomico.
È un artista eccentrico: me lo avevano descritto come un personaggio geniale in un ambiente dell’arte parallelo a quelli consueti, come un creativo multiforme e inafferrabile: dalla pittura e scultura al video, dalla grafica dell’immagine al design della moda. Ho saputo delle sue Monne Lisa per caso, solo pochi anni or sono, sebbene per oltre trent’anni avessi indagato “giocondologi” da Vinci agli antipodi. Mi ha sorpreso poiché era noto in quanto lavorava per griffe e televisioni nazionali, ma creava Monne Lisa nel silenzio e nel riserbo di una collina empolese ai confini con la terra di Leonardo.
In realtà, dagli anni Settanta, Fossi è l’artefice che ha dato un contribuito straordinario alla “Giocondologia”, con le interpretazioni senza fine della sua formula del “DNA visivo”.
Pochi critici d’arte hanno potuto scrivere su di lui. Vittorio Sgarbi e Luigi Meneghelli hanno interpretato nel suo lavoro accoppiamenti di biologia e meccanica nella mitologia arcana della Monna Lisa e nel clone del seme celato: nodi di fili e profili in un’apoteosi alare, codice simbolico e genetico, nuovi archetipi sorprendenti e imprevedibili che hanno origine dal dipinto più famoso al mondo.
La pittura è espressione e informazione, rivela l’origine al di là del visivo nella matrice del prototipo che racchiude e svela un universo di esperienze vissute.
Il DNA estetico si propone come energia concettuale per esprimere il mistero dell’arte che emerge dall’intimità della vita. La Monna Lisa giustificherebbe da sola il mito universale di Leonardo che vive nel presente anche grazie all’arte delle avanguardie e dei Leonardismi. Consapevolmente, Fossi l’ha fatta rivivere nelle molteplici variazioni animate del suo “DNA visivo”.
FRANCESCO BUTTURINI
“Franco Fossi" (Ed. D’Arte Ghelfi - 2004)
“Il vero e proprio enigma che il tema dell'arte ci pone è proprio la contemporaneità del passato e del presente" |1|.
Vorrei iniziare la mia breve riflessione sulle opere di Franco Fossi con quest'affermazione di H.G. Gadamer, ed affiancarla con quest'altra presa dalla stessa operetta: " ... chi crede che l'arte moderna sia degenerata non riuscirà mai a capire adeguatamente la grande arte delle epoche passate. Bisogna imparare che si deve prima sillabare un'opera d'arte, e poi si deve imparare a leggerla, e soltanto allora essa comincia a parlare. L'arte moderna è un buon avvertimento per chi crede che, senza sillabare, senza imparare a leggere, si possa udire ancora il linguaggio dell'arte antica" |2|.
Ecco allora davanti a noi i gessi e i bronzi di Franco Fossi: non sono molto grandi. Eppure hanno una loro monumentalità fascinosa, quasi misteriosa.
Dovremo scoprire il perché.
Forse il bianco del gesso costituisce in questa aura monumentale un valore aggiunto. Ma aggiunge anche una sensazione di smarrimento del\nel tempo: il gesso è polvere: la polvere da cui nasce Adamo. E ci si perde così, subito, nelle origini più remote della nostra storia di inseguitori delle orme di un dio che si nasconde, di cui vediamo sulle rene dei mondi impronte che il bagnasciuga cancella attimo per attimo e ancora luccica un istante e balugina l'impronta più profonda del tallone.
Eppure questa monumentalità rimane intatta.
Anzi: tangibile.
Viene alla mente il bianco splendore dei marmi parii di Prassitele, di Fidia. Quel biancore, però, trasluce. Il gesso è opaco e, se mai, riluce.
È il rimando a qualcosa d'altro, allora, che mi sillaba questa monumentalità innegabile: è il rimando ad un equilibrio composito\propositivo delle parti, dei vuoti e dei pieni, dei verticali e degli orizzontali, dei morbidi e dei duri, dei dolci e dei taglienti.
Tutto questo è classicità.
Non ha altri nomi e nel nostro - nel senso di occidentali - DNA significa monumentalità, il cui ambito semantico richiama inequivocabilmente il verbo moneo, ma anche il sostantivo munus e ci rimanda quindi alla necessità di trovare un significato a queste forme. Un messaggio sufficientemente chiaro che consoli il tempo della nostra visione.
Abbiamo a disposizione dei vocabolari, anche delle grammatiche e delle sintassi: si intitolano Umberto Mastroianni, Pietro Consagra, Arnaldo Pomodoro, Igor Mitorai: in essi troviamo quanto necessario per seguire l'utopia di Franco Fossi e sillabare e quindi leggere la sua classicità contemporanea.
Egli e gli altri che ho citato come possibili esempi parlano lo stesso linguaggio dell'utopia della forza dei corpi nello spazio di aprirsi alla luce del sole come semi delle cose e raccogliere intorno a sé l'alito di vita perenne, quel semen sparsum di lucreziana memoria generatore dell'universo.
Franco Fossi è partito come grafico, come pittore vicino alla Pop Art: argomento non secondario per un'altra sillabazione: ricordare che è forte il messaggio contenutistico iperrealistico ed ipercodificato nelle opere della Pop Art.
Anche nelle modellazioni di Fossi il messaggio è forte, ma sfugge all'ipercodifica che annulla il significato delle parole\oggetti\immagini offerti: è l'invito a vedere oltre l'oggetto la sua più reale realtà, che supera il fenomenico per divenire esistente, perchè dall'esistenza coglie l'esistente e ne diviene parte principale.
È cogliere l'essenza stessa dell'esserci.
Un invito che nasce dal sogno della bellezza come perfezione buona. Un tempo che insegnavano a dire come kalokagathia (bello e buono, il bello è buono il buono è bello).
Ecco il valore primo di questi volti che appaiono come emergenti dallo spazio predeterminato in volumi geometrici: quasi premesse plastiche dell'apparizione.
Quasi un'invocazione. O meglio: un'inquadratura, premessa e luogo per chi dovrà arrivare ed apparire.
E allora i solidi plasmati nel gesso divengono di volta in volta il sipario, il velum che nasconde l'origine dell'apparizione del volto.
Nel volto è l'immagine eterna degli umani, secondo quella "pedagogia del volto" |3| che Levinas ha posto come caposaldo delle relazioni per mezzo delle quali l'uomo conosce l'altro e cerca nell'altro il divino che pulsa in se stesso |4|.
C'è un profondo - ma non nascosto - desiderio di uno spirito immortale in queste modellazioni: un inseguimento.
Quell'inseguimento cui accennavo all'inizio.
Basta lasciarsi prendere dalla modellazione, qualunque essa sia, e ti senti trasportato in un abisso di sensazioni in cui prevale un sentimento di nostalgia che rasenta l'ineffabile, in forza del quale "la meraviglia trascende la conoscenza" |5|.
Ecco quindi che, a mio avviso, per leggere le opere di Franco Fossi bisogna non aver paura di abbandonarsi allo stupore e alla meraviglia per non correre il rischio - così comune - di non comprendere che "il più grande ostacolo sulla via della conoscenza proviene dallo spirito conformistico con cui accettiamo nozioni convenzionali, cliché mentali. Un senso di meraviglia o di profondo stupore, uno stato di disagio nei confronti di parole e nozioni, sono pertanto il presupposto per una autentica consapevolezza di ciò che esiste." |6|.
NOTE
1] Hans George Gadamer "L'Attualità del bello" Marietti 1820 Editore, Genova 1986, p.50
2] Ib. pag.52
3] che é il titolo di un'operetta di Stefani Curci: "Pedagogia del volto - Educare dopo Levinas", EMI Ed. Bologna 2002
4] ad esempio in " Dio che viene all'idea " (1982) traduzione presso Jaca Book, Milano 1997
5] In Abrham Joshua Heschel "L'uomo nel solo" Mondadori, Milano 2001, p.26
6] Ib. pag. 25
CLAUDIO CINELLI
Lettera di Claudio Cinelli a Franco Fossi - 13 Settembre 2009
Caro Franco
Mi son divorato i tuoi cataloghi di esperienza stanotte….che bel mangiare per la mente. Grazie Poesia pura!!!!
Ho percepito che il porre scompensi e smagliature all’idea ci accumunava, ecco perché ti scrivo…. percorsi differenti, lontani, prossimi, apparentemente simili, ma ben lontani ed entusiasmanti.Deserti non aridi bensì spazi viventi(come dici tu) l’impronta che lascia segno nella materia, la pressione, la qualità del vuoto…..tutte cose che per me presero senso nell’aria….nello spazio scenico….il limite che da l’impronta di un corpo in movimento…lo spostamento ideale dello spazio e così il suo “rovescio”…”un altrove”
La ricerca di domande…sublime sviluppo dell’idea….dell’arte qualunque essa sia. E il suo ribaltamento.
La tua ricerca del “momento genetico”..affascina …..e mi da corpo per altre problematiche.
E Quando arrivi alla linea di fermo…ecco!!!!…..”le lontane similitudini”….si presentano!
Ti unisco uno scritto in merito “il contrappunto” riflessioni sulla genetica teatrale? Forse.
Mi vien da pensare se alla luce di tutti i mutamenti derivati dall’avvento della tecnica, computer ecc, insomma….(che quando hai iniziato erano ben lontani)….ti sia mai venuto in mente di rifare un percorso a ritroso servendoti dei nuovi mezzi.. per confrontare i punti di vista e ancor piu senso alla tua ricerca. Le tue teorie di scomposizione/composizione potrebbero essere nuovamente filtrate da un “aiuto” tecnico e riverificate oggi su piani che a suo tempo ti erano oscuri.
Il percorso che fai mi è assolutamente ben chiaro, lo è forse piu poeticamente e idealmente, che non pratico….gli esempi e gli arrivi concettuali che proponi , quando prendono forma visiva, credo che perdano la loro efficacia primaria, poetica anche se ben mantengono la loro forza esplicativa. Sappiamo che quando si da forma ad una idea abbiamo solo un limite, siamo umani e limitati anche se possiamo percepire il NON-LIMITE….L’ALTROVE
Mi vien da azzardare ..e sorrido…che forse Leonardo stesso dia alla Gioconda il compito di essere il DNA dell’arte…..un’equazione semplice….il DNA sta all’uomo come la Gioconda sta all’arte, o meglio al pensiero artistico. Ma che a sua volta abbia in se un DNA un codice ideale…un simbolo ideale…una linea di fermo la fa divenire ancora piu affascinante illimitata e illimitate.
La Gioconda come codice segreto … mutante…. che va da un’espressione artistica ad un’altra….un momento genetico insomma.
Sicuramente la necessità del non prendersi sul serio fa parte del nostro DNA e fa si che esista la peosia, altrimenti la curiosità dall’altro …della scoperta..della ricerca cadrebbero di botto.
Certezza o inquietudine????? Meglio entrambe in bilico!!!!